Autore: A.F.
Il giallo del Lunedì
La mia ispirazione
La mia ispirazione è direttamente proporzionale
alla distanza dall’inchiostro e dalla tastiera.
(A. Falchi)
Da Viaggio di andata a Effetto domino
6 Dicembre 2012 Si presenta il libro di Andrea Falchi
Presentazione di Effetto San Matteo al Caffè Volta Pagina
Effetto domino al Pisa Book Festival
Il primo capitolo di Effetto Domino
Capitolo 1 D’Annunzio e Leopardi
Il caffè lo girava sempre nello stesso modo, in senso orario partendo dal bordo della tazzina fino ad arrivare con un veloce moto convettivo al centro e poi ripartendo nuovamente e instancabilmente daccapo. Il cucchiaino sembrava un mortaio che roteava nel liquido nero fino a che anche il minimo granello di zucchero non era scomparso. E non usava mai zucchero semolato, ma puntualmente sempre quello grezzo di canna, di modo che il processo di solubilizzazione durasse ogni volta qualche decina di secondi in più e il fatto di sentire una certa resistenza nel mescolare gli dava una soddisfazione pari al fatto di degustare tale bevanda energetica. E i pensieri migliori della giornata nascevano di lì, partoriti in un istante, fulminei che quasi lui stesso si meravigliava di averli dati alla luce.
Quel giorno di ferie che si era concesso era iniziato nella stessa maniera di tutti gli altri giorni. Sveglia presto, intorno alle sei e mezza, doccia, colazione abbondante, barba, dopo barba lenitivo al rabarbaro, e poi alla ricerca di un bar e soprattutto di un buon caffè per espletare quello che ormai era un rito consolidato da svariati anni, la tazzina con il manico a destra, l’apertura della bustina in cima senza romperla del tutto, la discesa a pioggia dello zucchero marrone, la fase di solubilizzazione di qualche secondo, poi il primo assaggio e il primo granello di zucchero non sciolto che incontrava i denti in un rumore impercettibile al mondo esterno, ma che per il palato era un boato assordante. Infine il lento mescolare prima di bere tutto di un fiato.
Quella sera sarebbe dovuto passare a fare due chiacchiere col parroco: incontro prematrimoniale lo si definiva, lui preferiva dire che andava a fare un aperitivo dell’anima a casa di un amico particolare.
L’anima, ci aveva pensato un sacco di volte senza venirne a capo, adesso gli sembrava così ovvio paragonarla al suo zucchero di canna, c’era, era lì dentro il caffè ma non si vedeva, Dio l’aveva sciolta ben bene all’inizio della sua opera dentro i nostri corpi e seppur invisibile era lì, e come per lo zucchero bastava fare evaporare il liquido per riottenerla, così a Dio necessitava la nostra morte per riaverla indietro.
Non molto allegro come primo pensiero della giornata, d’altronde questo era quello che passava il convento delle sue idee quella mattina di fine settembre.
Il caffè dell’Ussero risplendeva come sempre, gioiello incastonato nel vecchio palazzo Agostini sul Lungarno Pacinotti. C’era sempre stato qualcosa che stonava a guardare bene questo antico palazzo, anche se per notarlo in tutta la sua maestosità era meglio ammirarlo dall’altra parte dell’Arno, a mezzogiorno. Non inteso come orario, ma come luogo geografico proprio a sud del fiume. E il suo colore rossiccio dovuto all’intero rivestimento in cotto della facciata era qualcosa di unico, ma era la non simmetria quella che lo disturbava, al primo piano quattro bifore, al secondo piano due bifore e due trifore.
La simmetria era stata una sua ossessione fin da bambino, tutto doveva essere simmetrico, dagli oggetti in casa disposti in una certa maniera ai gesti che faceva quotidianamente. Il suo disegno preferito era “L’uomo vitruviano” di Leonardo da Vinci, esempio emblematico di simmetria assiale verticale e poi tutti in poligoni in generale e l’esagono in particolare. Tutti noi quando ascoltiamo gli altri parlare, giocherelliamo con una penna, scarabocchiando qua e là su di un foglio di carta a portata di mano, ecco lui disegnava sempre esagoni, simbolo della perfezione delle api nel costruire le loro celle di cera. Perfezionista lo definivano i suoi amici, ma chi lo conosceva veramente bene lo dipingeva con opposti termini, d’altronde ormai questo era l’abito che gli altri erano abituati a vedere di lui, quello del precisino e quando l’opinione generale punta il dito in una direzione è difficile riuscire a cambiarla. A lui piaceva dire che era imprevedibile nella sua precisione.
La Chiesa di Santa Maria della Spina brillava come un piccolo Duomo sull’altra sponda dell’Arno, bella come una sposa con il suo vestito ricamato tirato un po’ su e i piedi nudi immersi nell’acqua.
E in prospettiva, come per magia, quasi fosse allineata in una linea retta immaginaria, seppur su due sponde opposte, gli apparve quasi in primo piano la torre Guelfa della Cittadella, luogo dove un tempo venivano varate tutte le navi della gloriosa repubblica marinara pisana.
Di fronte a lui, invece, sul punto più basso delle spallette del fiume, una coppia di giovani amici dandosi le spalle e tenendosi in equilibrio fra loro, quasi sfiorandosi per un solo punto delle loro schiene, stava silenziosamente muovendo le dita su due smartphone di ultima generazione.
E lui, in quell’aria pura di un caldo sole settembrino, si sentiva libero, libero da un eccesso di comunicazione che lo aveva sempre turbato, libero di non avere quella che era una delle più alte fonti di stress della società moderna, il telefono cellulare.
Con lo sguardo seguì idealmente un gabbiano arrivare all’orizzonte fino alla foce dell’Arno, quella Boccadarno già immortalata dal vate D’Annunzio, e si ritrovò a sussurrare a bassa voce i primi versi di quella famosa poesia “Bocca di donna mai mi fu di tanta soavità nell’amorosa via” che subito si fermò, imbarazzato. Un ragazzo con lo zaino in spalla lo stava osservando con crescente stupore e sotto la prima peluria adolescenziale si era già formato un mezzo sorriso di ironica fattezza.
Con uno scatto indietro ritornò verso il caffè, oltrepassò il marciapiedi e si fermò a un edicola lì accanto.
“Ciao Gianni” si presentò il ragazzo all’edicolante.
“Ciao grande, chi non muore si rivede! Sei proprio sparito?, sarà una decina di giorni che non ti fai sentire… Allora ci siamo quasi eh?”
“Sì, sì ormai manca sola una settimana, non sono sparito e che non sono stato molto bene ultimamente, poi avevo un corso formativo fuori Pisa.”
“Dillo che ti stai cagando sotto, dai?”
“Per ora no, ma lo sai io mi emoziono sul momento.”
“Sicuramente avrai già organizzato tutto, precisino come sei!”
Lui e Gianni si conoscevano fin dal Liceo, erano stati compagni di classe e in qualche periodo dell’anno anche compagni di banco, in particolare erano ancora grandi amici. Gianni era di corporatura media, aveva una barba folta non curata e rossiccia e dalla testa spuntava un codino legato a un elastico che raccoglieva una grande quantità di capelli. Al contrario di lui che era quasi calvo.
“Ancora con questa storia del precisino, me la ripeti fin da quando avevamo quattordici anni…”
“Bene, vuol dire che non sei cambiato e che soprattutto non ci siamo mai persi di vista. Piuttosto chi hai invitato dei nostri compagni di classe? Non mi ricordo.”
“Io sarò precisino, ma te non ti ricordi proprio nulla! Ho invitato solo te, come te lo devo dire?”
“Onorato, ma lo sai che tu sei la mia memoria storica di quegli anni, senza di te avrei difficoltà anche a dire che liceo abbiamo fatto!”
“Senti vado di fretta, dammi Il Tirreno e La Nazione, saranno dieci giorni che non compro un giornale.”
“E quindi ti fai una scorpacciata? Ma che precisino, due giornali, uno di destra e uno di sinistra per farti un’opinione completa…”
“Ti posso mandare a fare…”
“Zitto che altrimenti ti devi nuovamente confessare.”
“Guarda se è per questo stasera vedo il prete, quindi ti posso mandare senza problemi a fare…”
“Buono, buono, piuttosto dimmi la dolce metà che fa oggi?”
“Non so, anche con lei è un po’ che non ci si vede, oggi dovrebbe fare una prova trucco e parrucco, ma ancora non ci siamo sentiti, d’altronde lo sai io non ho il cellulare.”
“Ti potrebbe anche arrivare come regalo.”
“E che regalo di coppia è questo!”
“Lo dici tu, se hai il cellulare, la dolce mogliettina ti potrà rintracciare sempre, quindi più regalo di coppia di così…”
“Vai dammi i giornali che scappo.”
“Ok, saluta la consorte e dille che aspetto sempre di uscire con una sua amica.”
“Presenterò, buona giornata.”
La sosta in edicola era durata più del previsto, anche se a dirla tutta non aveva la fretta che aveva confessato al suo amico.
Guardò nuovamente le spallette dell’Arno e i suoi occhi azzurri furono catturati per l’ennesima volta dalla targa che la città aveva messo in onore di Giacomo Leopardi per aver soggiornato a Pisa negli anni 1827 e 1828, anni in cui compose i due canti “Il risorgimento” e la più famosa “A Silvia” datata 19-20 Aprile 1828. Leopardi, infatti, in una delle prime lettere scritte da Pisa alla sorella Paolina esalta la città toscana e il suo lungarno: L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano, né a Roma, e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino vedute di questa sorta.
Tutte le volte che passava di lì non poteva fare a meno di leggere quelle belle parole, immortalate in questa targa, che lo rendevano così orgoglioso della sua città natale.
La torre dell’orologio del Palazzo Pretorio, posta a sud, oltre il Ponte di Mezzo, segnava le dieci.
Con passo svelto si diresse verso il ponte con un giornale semiaperto sul davanti e uno sotto l’ascella a mo’ di baguette alla stregua di un parigino doc.
I titoli del Tirreno davano importante risalto a uno sciopero del sindacato italiano lavoratori polizia (SILP) dovuto alla mancanza di fondi per le banali necessità di tutti i giorni. “Mancano i soldi, i poliziotti devono lavare le auto da soli”. C’era anche un ampio resoconto sulla recente apertura della mostra del Picasso a Palazzo Blu dove si contava di arrivare fino a 100.000 visitatori alla fine di gennaio.
Picasso non gli piaceva, troppe scomposizioni, troppi piani di simmetria, troppo dolore.
Giunto al punto di massima altezza del ponte, si girò, come faceva sempre, prima a sinistra verso i monti, poi a destra verso il mare e gli sembrò di dominare la città.
Lì su quel ponte c’era sempre stato un microclima a se stante, tant’è che in quel momento si era alzata la fredda carezza della tramontana a ricordare che l’autunno era già cominciato da qualche giorno.
E poi lo vide, con quella sua camminata caratteristica, arrivare dalle Logge dei Banchi. Andatura oscillante la definiva lui, sembrava un orologio a pendolo che si muoveva con perfetto isocronismo.
Luigi era alto quasi un metro e novanta, magro da far invidia e soprattutto un chiacchierone tale da porre cento domande al minuto senza ascoltare nemmeno le risposte e quando parlava aveva un linguaggio tutto suo da interpretare. Ma era il suo migliore amico, si conoscevano fin dall’infanzia e sarebbe stato il suo unico testimone di nozze di lì a qualche giorno.
“Ciao come va? Non ti si è più visto in giro in questi giorni… Anche tu qui per il presidente?”
“Presidente chi?”
“Allora sei pronto? Ci dobbiamo mettere d’accordo per una di queste sere…”
“Sì Gigi, ma presidente chi? Quello del Pisa Calcio?”
E mentre pronunciava queste ultime parole alzò lo sguardo oltre il metro e novanta e, dovette fare uno sforzo per non cascare in avanti, vide una folla di persone, soprattutto bambini, che invadevano la piazza sottostante e le Logge dei Banchi, tutte con in mano un tricolore sventolante. D’istinto riprese il Tirreno e lesse “Pisa abbraccia il Presidente della Repubblica”.
E il bello che la notizia era in prima pagina con tanto di foto, ma a lui non piacevano le cose troppo evidenti, per fare un esempio in un mondo dove tutti ammirano la luna di notte, a lui lo affascinava la luna di giorno ed era capace di stare interi minuti a guardare il profilo del suo tramonto in pieno giorno, il suo contorno impercettibile.
“Oh ma ti sei incantato?” gli urlò Gigi riportandolo sulla terra e per precisione sul Ponte di Mezzo.
E senza aspettare una risposta gli blaterò:
“Più tardi vado a un funerale di uno che ti assomiglia.”
“In che senso mi assomiglia? E’basso come me?”
“Ah, a proposito quando scendi dal ponte, prendi la seconda a destra, subito sul muro di destra ci potrebbe essere del materiale interessante per te…”
“Ti riferisci alla mia collezione di frasi trovate sui muri? Certo che non è facile parlare con te!”
“Lo so, è per questo che siamo amici, sei uno dei pochi che mi capisci.”
In quel momento un’ondata di persone dirette verso la piazza travolse i due amici. I due furono trasportati per un po’ dalla corrente caotica della folla fino a che si ritrovarono distanti una cinquantina di metri. In ultimo tentativo di saluto Luigi agitò la mano che sporse di gran lunga dalla folla, mentre il suo amico annaspava gridando:
“Non mi hai detto di chi è il funerale?”
“Cosa dici, presidenziale?”
Ormai a distanza di qualche centinaio di metri ognuno dei due riprese il suo cammino.
Daniele si insinuò tra le centinaia di persone che riempivano quasi ermeticamente la piazza, trovò un varco e si infilò nel corso pedonale della città.
Non aveva voglia di fare altre soste, però la curiosità indotta dall’amico lo aveva talmente stuzzicato che non poteva fare a meno di vedere quella scritta sul muro.
La sua passione di collezionista di aforismi murali nasceva qualche anno prima quando, ancora studente di sociologia, aveva incominciato a leggere le scritte sui muri come propri e veri messaggi dettati da un bisogno interiore di esternazione. E se ben analizzati alcuni avevano un acume e una ironia così profondi da far rimanere a bocca aperta o con un sorriso inebetito di fronte alla scritta. La cosa più divertente è che spesso suscitavano una vera e propria reazione che si manifestava direttamente in loco, ovvero sul muro stesso. Una sorta di botta e risposta più ragionato però di un sms, diciamo anche più artistico.
Istintivamente si mise una mano nella tasca interna della giacca e il contatto con la sua agenda lo rassicurò. Su quel taccuino infatti annotava le scritte più divertenti che trovava in giro per le città italiane, lo portava sempre con sé. Solo una volta, circa due settimane prima, in un piccolo viaggio dalla mattina alla sera, lo aveva dimenticato a casa. Aveva allora provveduto con un foglio di carta recuperato all’ultimo, anche se poi prima di rientrare a Pisa l’aveva smarrito e le scritte di quel giorno erano andate perse per sempre e il bello era che non si ricordava nemmeno dove l’avesse lasciato. Per questo ci teneva particolarmente al suo taccuino, fosse mai che lo smarrisse, per lui era una sorta di breviario che aveva dato spunto alla sua tesi di laurea sulle nuove metodologie di comunicazione, ci era proprio affezionato.
Lo aprì a caso e ne lesse uno che lo faceva sempre sorridere: “L’amore vince” e aggiunto sotto con un’altra scrittura “o al massimo pareggia”.
Girando pagina ce n’era un altro emblematico della probabilità di chiunque di incappare in un errore grammaticale che però poteva turbare i più sensibili alla purezza della lingua italiana: “LORGOGLIO NON SERVE” e a seguire una delle risposte più taglienti che avesse mai letto “(MA L’APOSTROFO SI’)”.
Tendenzialmente non trascriveva mai frasi con parolacce e questo rappresentava una grossa selezione visto che la maggior parte delle scritte sui muri contenevano le peggiori parole del vocabolario italiano, però una di queste scritte l’aveva colpito e senza dubbio la presenza della brutta parola era funzionale all’impatto della frase stessa. Considerando l’esplosione di frasi come io e te, 3 metri sopra il cielo che erano un po’ in ogni dove della penisola dopo il successo del libro di Moccia, questo ironico wall writer aveva espresso la sua stanchezza sull’argomento scrivendo: “Mica per nulla, ma quanto cazzo di gente c’è a tre metri sopra il cielo?”.
Nel frattempo, completamente isolato e protetto dalla folla, quindi solo con i suoi pensieri e il suo taccuino, si era ritrovato al bivio che gli aveva indicato Luigi. Svoltò quindi a destra in via La Nunziatina e sul muro subito alla sua destra lo accolsero tutta una serie di annunci mortuari. “Simpatico Gigi, ora quando lo vedo gliene dico quattro” pensò fra sé e sé. Poi rapidamente lo sguardo si posò subito sopra e trovò la frase indicata dall’amico “Solitudine non è essere soli, ma amare gli altri inutilmente”. Non fece a tempo a pensare “Come è poetico oggi il mio amico” che i suoi occhi ritornarono immediatamente sui manifesti funebri. Come se la mente avesse memorizzato e solo in un secondo momento rielaborato si trovò a fissare impietrito un manifesto. C’erano sopra il suo nome e cognome. Ora fa sempre effetto vedersi su un annuncio mortuario, è come vedere la morte in faccia e non è un modo di dire, ma quello che lo turbò di più fu il fatto che il suo omonimo aveva anche la sua stessa età e frequentava la sua stessa parrocchia, era lì infatti che si sarebbero svolti i funerali nel primo pomeriggio.
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Da RecenSito.net
“Effetto domino”: alla ricerca del colpevole tra le strade di Pisa
di Silvia Tomaselli
Presentazione del libro “Effetto domino” (Marco Del Bucchia editore) di Andrea Falchi a cura di Sonia Saba.
L’evento si è svolto il 29 giugno 2012 presso il Caffè Keith Haring di Pisa.
L’autore: Andrea Falchi è nato a Pisa nel ’76. Laureato in chimica, è un informatore scientifico del farmaco. Vincitore di vari concorsi letterari, ha pubblicato diversi libri di poesie: “Impressioni sulla scena”, “Gli occhi del poeta”, “Il silenzio dell’universo”, “Il guardiano del faro”, “Viaggio di Andata” e “Lo spazzino delle stelle”. Con “Binario 9” approda finalmente alla narrativa e prosegue il suo percorso con il giallo “Effetto domino”.
Forse è stato il caso ad attrarre un folto gruppo di persone alla presentazione del libro “Effetto domino”. Non è però casuale che il giovane Andrea Falchi abbia scelto come scenografia per l’introduzione del suo ultimo romanzo il murales di Keith Haring “Tuttomondo”. L’intreccio colorato di corpi è lo sfondo perfetto per raccontare di quel “caos”, anagramma proprio di quel “caso”, che sovente fa prendere all’uomo strade inattese. Ogni personaggio, come un tassello del domino, diventa, quindi, causa e vittima dello stesso disastroso effetto. È comunque riduttivo definire solamente un “giallo” il libro dello scrittore pisano, perché il primo intento dell’autore vuole essere quello di accompagnare il lettore in una “passeggiata” per Pisa. Così luoghi, personaggi e aneddoti della città si compenetrano dentro una storia, intrisa di mistero, in maniera leggera, senza disturbare una narrazione basata sull’indagine di un delitto. Due i protagonisti del libro. Il primo Daniele, sospettato numero uno, è un ragazzo di una precisione maniacale, che improvvisamente vede la sua vita sconvolta dalla lettura di un annuncio mortuario che porta il suo nome e cognome. L’altro è il commissario Silvestri che, pur non credendo agli eventi fortuiti, li sfida col suo particolare metodo di investigazione basato sulla lettura casuale di stralci di libri. “Il caso non esiste” afferma più volte Silvestri. Invece, il destino molto spesso costruisce una strada differente da quella principale, in cui la simmetria della vita può essere sconvolta dalla morte e quindi diventare asimmetria dell’anima.