Recensione del romanzo Le cose belle sul blog Le pregiate penne
Andrea Falchi
Quando si dice che un titolo funziona …
Venerdì 4 ottobre ho incontrato questo libro e il suo autore Andrea Falchi, che comunque già conoscevo, al Book Festival, dove l’autore, allo stand delle edizioni Carmignani era presente per il rito del firma copie, rito a cui mi sarei sottoposto anch’io, la domenica successiva e a causa del quale ancora soffro i postumi, essendomi provocato una lussazione al polso destro a firmare centinaia di copie del mio ultimo nato “Erotiche alchimie”. Ora che mi hanno tolto l’ingessatura, posso finalmente parlare di questo originale libro che rientra a pieno titolo nel genere del romanzo filosofico o, per essere più raffinati del Conte philosophique e spiegherò più tardi il perché, dando ora, come mia consuetudine, la parola all’autore che così si esprime nella nota introduttiva:
Le cose belle accadono sempre in estate è il mio terzo romanzo ad “affetto”. Nonostante la vicenda sia totalmente inventata tengo molto a questo romanzo perché mi ha permesso di mettere in parallelo la mia adolescenza con quella in divenire del mio primogenito Leonardo. E nel confronto ho capito che cambiano le epoche, ma le gioie e le insicurezze sono sempre le stesse. Questo romanzo è dedicato a tutti i ragazzi che cercano un loro posto nel mondo e che stanno vivendo la turbolenta età dell’adolescenza. Spero che leggendo queste pagine possiate acquisire una forte consapevolezza delle vostre potenzialità e che possiate uccidere quanto prima il Minotauro che si trova all’interno del vostro labirinto fatto di insicurezze e necessari dubbi. Come dice il poeta statunitense John Ciardi: “Non c’è bisogno di soffrire per essere un poeta: l’adolescenza è una sofferenza bastante per chiunque.”
E, nella quarta di copertina:
Quanto è complicato crescere? Quanti tipi di solitudine bisogna affrontare prima di poter dire di aver trovato il proprio posto nel mondo? Attraverso cinque foto il protagonista di questa storia ci narra la sua vicenda a volte dolorosa a volte al limite del credibile facendoci innamorare della sua strampalata famiglia. E’ un viaggio questo che assomiglia a una digressione perché andare in linea retta fa arrivare subito alla meta. E non è quello che serve per farci innamorare. Se la solitudine è la distanza di un sogno dal cuore, il silenzio è il suo linguaggio, il suo colore. E non basta tutta la filosofia del mondo per colmare un’assenza, per sopire un dolore. Ci viene incontro l’estate, perché le cose belle accadono sempre in estate.
La solitudine è una parola che compare spesso nelle pagine di questo libro, è quasi una sorta di leitmotiv ; solitudine accentuata dall’ assenza della figura paterna che, diacronicamente, attraverserà tutte le fasi di crescita dell’io narrante, bambino prima, adolescente poi. Assenza che la genialità del nonno, il Giuliani, maestro cartapestaio, cercherà di sdrammatizzare costruendo al nipote un babbo posticcio di cartapesta. Ed ecco come ce lo racconta l’autore:
Mia madre riteneva, infatti, che la mancanza di una figura paterna potesse influire negativamente sulla mia crescita e così pensò bene di fare costruire a mio nonno un babbo posticcio. Non so se questa cosa sia servita realmente. Ho pochi sbiaditi ricordi di questa figura educativa fatta di carta, anche perché all’età di due anni mia mamma decise che lo svezzamento paterno era terminato e il fantoccio non aveva più motivo di essere avendo assolto al suo compito non appena pronunciai la parola babbo.
Ma quali sono queste famose cose belle che accadono solo d’estate? Due in particolare: la prima riguarda la data di nascita del protagonista che nasce, di sette mesi, alla fine di febbraio del 1993, ma concepito, quindi, nell’estate del 1992 e la seconda , sempre in estate, l’innamoramento, a sedici anni, per Jenny, l’amica americana che gli provocherà una cocente delusione e, su tutto. onnipresente nelle sue riflessioni, l’ondivago rapporto con Sofia, la madre:
Si può riassumere così la vita di mia mamma: fuori luogo come un cappotto d’estate o come un applauso partito prima che finisca l’esecuzione di un brano musicale. O come quando al funerale del nonno gli scappò un “Tutto è bene quel che finisce bene.” O come quella volta, era l’anno in cui passavo alle medie, che si mise a sedere con altri genitori ad ascoltare la presentazione della nuova scuola quando a un certo punto dopo una mezz’ora buona si rese conto che aveva sbagliato non solo aula, ma proprio istituto.
La controversa figura della madre farà scaturire nel protagonista una serie di riflessioni sul cosa significhi diventare adulti: aveva forse qualcosa a che fare con l’essere indipendenti o forse era la perdita dei sogni che demarcava il confine tra l’età della giovinezza e quella dell’adulto. Queste riflessioni sono una costante del libro e le troviamo sempre, come una sorta di corollario, a commento delle esperienze più significative che segnano l’ evoluzione del protagonista dall’infanzia all’adolescenza fino alla maturità.
L’autore usa spesso un registro linguistico ironico, facilitato comunque dai contesti familiari alquanto bizzarri in cui si trova a vivere, ma allo stesso tempo è sempre presente una sorta di malinconia meditativa, accentuata dal fatto che non riesce a trovare risposte convincenti al senso di solitudine sempre presente in ogni sua azione. Significativa, a questo proposito questa sua riflessione:
Goethe diceva che un’affinità nasce prima da una separazione. Questo perché due elementi che inizialmente stanno insieme trovando altri due elementi più affini riescono a combinarsi in maniera più salda, però prima si devono separare. Mio padre e mia madre erano così scarsamente uniti che non hanno avuto necessità di incontrare stimoli esterni per separarsi. E’ bastato uno stimolo interno alla coppia come la mia nascita per far volatizzare mio padre.
Ho definito all’inizio questo libro un romanzo filosofico e non di formazione e questo per un semplice motivo; nel romanzo di formazione prevale l’azione che diventa la genesi delle trasformazioni senza necessariamente spiegarne le fenomenologie, qui invece ci si sofferma prevalentemente sui significati profondi delle azioni e si cerca di darne una spiegazione filosofica. E, del resto, basta sentire cosa dice l’autore, rispondendo a Roberta Galli, in una recente intervista rilasciata a IL Tirreno:
D. Falchi, però lei nel sottotitolo fa riferimento alla filosofia. E’ una sua passione?
R. La filosofia appartiene a tutti, la filosofia ci fa comprendere meglio quello che proviamo. Il protagonista dovrà affrontare una serie di prove partendo dalla sua solitudine che riuscirà negli anni ad elaborare e trasformare in una piena maturità.
D. Siamo quindi davanti a un romanzo di formazione?
R. Certamente il protagonista affronta tutte le tappe tipiche del Bildungsroman anche se in questo caso siamo di fronte a un viaggio che procede per digressioni, perché è solamente trovando un rifugio, un anfratto che è possibile innamorarsi. Andare in linea retta, infatti, fa arrivare subito alla meta e non è quello che serve all’essere umano per comprendere al meglio questa effimera esistenza.
Un romanzo quindi che assomiglia più al “Candide” di Voltaire che al “Giovane Holden” di Salinger.
Infatti in questo romanzo Citele (nomignolo dell’io narrante) impara a conoscere se stesso e il mondo che lo circonda e, partendo dalla sua esperienza personale, a elaborare una conoscenza critica della realtà sociale e culturale e della propria condizione.
Se ripensavo al bambino che ero e all’adulto che ero diventato non potevo che essere soddisfatto. Si chiama maturazione ma non è una cosa a cui fai molto caso mentre succede. La solitudine assoluta aveva lasciato spazio alla solitudine necessaria, fisiologica. Avevo perso un pezzo di me per acquisirne uno ancora più importante: la consapevolezza di esistere che coincide con la consapevolezza di essere un entità perfettibile con suscettibilità di errore. L’attesa, l’assenza e l’errore. L’avevo fatto per tutta la mia giovane vita. L’attesa che portava a un imprescindibile assenza per poi cercare di capire dove fosse l’errore. Dovevo pur aver sbagliato qualcosa se lui non era mai tornato. L’errore che si trasforma in senso di colpa. L’attesa, l’assenza, l’errore, il senso di colpa. Ecco cosa voleva dire diventare adulti, significava rompere questo ciclo perpetuo sbaragliare questo circolo vizioso che mi ero costruito con le mie stesse mani. In quale punto della catena sarei dovuto intervenire per frantumare quello che non è altro che un errore del pensiero? Potevo smettere di attendere potevo inventarmi una presenza, Ma la cosa migliore rimaneva correggere il codice che mi aveva portato a stare male in tutti quegli anni.
Quel “Lui” è chiaramente il padre, ma nell’ Epilogo, a questo proposito, il lettore troverà una sorpresa sotto forma di lettera che ovviamente non vi svelo …
Ho citato prima Voltaire e adesso userò un aggettivo che gli Illuministi adoravano, quando si trattava di parlare di libri. L’aggettivo in questione è “utile”. Ecco, questo di Andrea Falchi è un libro utile perché serve a farci capire in profondità, indagandoli, i tortuosi percorsi che un bambino deve percorrere per diventare uomo.
Il sottotitolo di questo romanzo è: “Diario foto filosofico di una solitudine”; infatti le varie fasi della vita sono extrapolate da foto che non vediamo, ma vengono raccontate. Ma c’è anche una colonna sonora che le accompagna Battisti, Zucchero, Vecchioni e tanti altri …
Pierantonio Pardi