Dei tre libri di poesie di Andrea, Viaggio di andata è quello che sento più vicino alla mia sensibilità, quello che più degli altri mi ha invogliato alla rilettura (sempre a centellini: la poesia va degustata, non trangugiata!) perché più degli altri appaga il mio modo di gustare la poesia. Mi piace leggere in modo passivo, abbandonandomi cioè a tutte le suggestioni che dà la lettura, soprattutto alle sensazioni e alle emozioni capaci di evocare per analogia o per contrasto sensazioni ed emozioni vissute con altre letture o altre esperienze. Questa passività moltiplica e rende più intense le emozioni che provo mentre leggo ma, è ovvio, confonde o almeno riduce molto la mia capacità di analisi, che comunque sarebbe superflua nel caso di Viaggio di andata perché è già stata fatta con esemplare chiarezza nella Introduzuone di Letizia Moretto. Quella che segue quindi non è l’analisi fatta da un lettore distaccato e obiettivo ma la chiacchierata di un “ascoltatore” (in poesia il suono delle parole è spesso più importante del senso) curioso, partecipe e… soddisfatto di quello che ha sentito.
La lettura di Viaggio di andata, fatta appunto da ascoltatore più che da lettore, mi rimandava continuamente ad altri viaggi che in gioventù amavo fare in compagnia di altri autori:
a) al Viaggio di Baudelaire verso “nessun luogo e dovunque”
Per il fanciullo, chino sulle stampe e gli atlanti,
l’universo ha l’ampiezza del desiderio ingordo.
Vasto il mondo al chiarore di lampade veglianti:
piccolo e scialbo, invece, agli occhi del ricordo.
Un giorno, ecco, si parte: una bragia
Vivida, il petto gonfio d’ira e di sogni amari;
cullando, al ritmo alterno dell’onda ove s’adagia
l’ansia, il nostro infinito sul finito dei mari.
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Ma navigante autentico è chi, preda all’ardenza,
va per andare, succubo d’un fatale richiamo:
colui che, lieve l’anima di mongolfiera, senza
mai saperne il motivo, rigrida il folle «Andiamo!»
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Si naviga. E la meta? Diversa a quando a quando:
nessun luogo e dovunque; la raggiungi e si sposta.
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Morte, o vecchio pilota, leva l’àncora, è l’ora;
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vogliamo sprofondare (Cielo, Inferno, che importa?)
nell’Ignoto, a cercarvi ancora e sempre il nuovo.
b) al viaggio del Bateau ivre, di Rimbaud, incapace di trovare una rotta nel mare in cui si trova abbandonato a se stesso;
c) al viaggio verso Itaca di Kavafis, ovviamente, ma anche a La città dello stesso autore
Hai detto:«Per altre terre andrò, per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento,
dove il mio cuore come un morto sta sepolto,
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina».
Non troverai altro luogo non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
Per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
Farai capo a questa città.Altrove, non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
Tu l’hai sciupata su tutta la terra
d) all’inutile viaggio di conquista dell’Aléxandros del Pascoli:
Giungemmo: è il fine. […]
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[…] era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l’infinita ombra del Vero.
Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi, quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino
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e) al viaggio di Montale insieme alla sua “Mosca”
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
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f) al viaggio di un altro“uomo con la valigia”, Giorgio Caproni, nel suo Congedo del viaggiatore cerimonioso
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a metter giù la valigia.
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Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me
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g) al Viaggio definitivo di Juan Ramon Jimenez (in allegato invio anche un file audio con la lettura di questa poesia fatta dalla bella voce di Paolo Carlini):
…E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio orto, col suo verde albero,
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come questa sera stan suonando,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese si rinnoverà ogni anno;
e in quell’angolo del mio orto fiorito e incalcinato
il mio spirito errerà, nostalgico…
E me ne andrò; e starò solo, senza focolare, senz’albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido…
E resteranno gli uccelli a cantare
E… mi fermo qui, perché in realtà tutta la grande poesia ha avuto quasi sempre come tema il viaggio, non tanto il viaggio come spostamento nello spazio geografico quanto il viaggio come simbolico riflesso del viaggio nel proprio mondo interiore, il viaggio come ricerca dell’infinito che dentro [noi] dimora (Baudelaire)
Il viaggio dunque è anche il tema privilegiato dalla poesia di Andrea. Ma il suo è un Viaggio di sola andata perché gli manca la certezza d una meta definitiva e quindi non di un vero viaggio si tratta ma di erranza, di un viaggio verso il nulla, di un viaggio per il viaggio perché è nel viaggio, non nella meta, il senso vero della vita..
Ma torniamo alla sonorità della poesia perché, come ho già detto, in poesia i suoni sono così importanti che il mio rapporto con lei è più da ascoltatore che da lettore, daascoltatore convinto che la poesia vada letta più volte e sempre ad alta voce, perché solo così si riesce a far emergere quel senso pieno della parola che la semplice lettura visiva non può cogliere. Aggiungo, con un po’ di esagerazione, che la poesia non andrebbe letta ma “eseguita” come una partitura musicale, perché essa si rivolge a tutti i sensi e all’orecchio in particolare.
E, a proposito di orecchio, ecco alcune mie considerazioni o, meglio, domande riguardo alla poesia di Andrea. La versificazione dei poeti moderni non ha più nulla a che fare con la metrica tradizionale e, libera da qualsiasi costrizione di ritmo e di rima, ubbidisce solo all’arbitrio o all’estro dell’autore. Faccio questa premessa perché ho dedicato particolare attenzione alle scelte metriche di Andrea, ricavandone l’impressione che non siano ancora definitive. Infatti mi ha colpito innanzitutto l’impaginazione dei testi, che varia da una raccolta all’altra o all’interno della stessa raccolta: In Gli occhi del poeta prevale l’allineamento a sinistra; l’allineamento è sempre centrato in Il Guardiano del faro; l’allineamento è “a specchio” nel Viaggio di andata (i versi sono allineati a sinistra nelle pagine pari, e a destra in quelle dispari); ritorna l’allineamento al centro in Lo spazzino delle stelle. I versi comunque tendono sempre, nel ritmo e nella sintassi fluida e piana (la preferisco di gran lunga ai contorcimenti della sintassi di certi poeti contemporanei!), alla prosa ma sono intrisi di suoni, rime soprattutto, che sfuggono alla lettura visiva ma sono chiaramente percepibili con la lettura ad alta voce. Perché sfuggono alla lettura visiva? Ho notato che, tranne in alcune poesie dove si fa un uso giocoso e scoperto delle rime (per esempio in “La tela” del Guardiano del faro), o delle paronomasie (“Pisa”, “Barcellona”, “Riva del Garda”), in molte altre invece c’è la tendenza a nasconderle all’interno del verso o a “coprirle” con il semplice espediente di farle precedere da una breve parola, generalmente una congiunzione, alla fine del verso (“Preghiera dell’Epifania”, “Dal basso” ecc.). Ecco, la presenza di tante rime evidenti o nascoste, in una versificazione che non concede nulla al ritmo, crea una strana e originale sonorità.
La vocazione di Andrea alla poesia appare, nelle tre raccolte di versi che mi hai mandato, così esclusiva che ho iniziato a leggere con una certa prevenzione il suo libro in prosa, Effetto domino.
L’ho letto – come si dice – tutto d’un fiato sia perché il racconto è breve sia perché la trama è intrigante nonostante la fatica per non perdere l’orientamento in quella selva di omonimie che conclude il libro. Ma, finita la lettura, il libro mi è sembrato soprattutto il pretesto per una nuova dichiarazione d’amore a Pisa e alla poesia. Infatti, con la citazione di due poeti(D’annunzio e Leopardi) e del loro omaggio a Pisa si apre il primo capitolo del libro; il quarto prende il titolo dall’autore dei Canti pisani; il quinto si apre con la citazione della dolce ninna nanna in endecasillabi di Renato Fucini; il “Pianto antico” del Carducci è citato, insieme con l’orgogliosa sottolineatura della sua laurea nella Scuola Normale di Pisa, nel sesto; e con la citazione dei versi “pisani” di altri due poeti, Luzi e Shelley, si chiude il libro.
Allora, posso concludere questa mia chiacchierata dichiarando che Andrea è così profondamente poeta che neppure in un libro in prosa riesce a tenere a freno il suo amore per la poesia?
Biagio Romano